Puccini e i pittori del Lago.
di Marco Gianfranceschi
Il territorio che va dalle Alpi Apuane al Mare, da Bocca di Magra alla Bocca del Serchio ha delle caratteristiche ambientali uniche: le alte vette, la collina, la pianura con i laghi e i fiumi, tutti in relazione stretta col mare. È uno spazio con un microclima eccezionale, il luogo ideale per vivere. È uno spazio funzionale alla villeggiatura, e quindi luogo privilegiato di incontro di persone provenienti da tante parti del Mondo. E quando si crea un punto di attrazione, quando la convivialità si consolida, le relazioni umane diventano veramente intense e feconde.
L’ esempio storico di questa affermazione fu Giacomo Puccini.
Nel 1982 Simonetta Puccini, nipote del compositore, per prima ebbe l’idea di studiare i rapporti tra il Maestro e i pittori che condivisero le sue giornate di Torre del Lago, coadiuvata da Raffaele Monti, curò la mostra “Puccini e i pittori”, allestita nel Museo della Scala a Milano, che riportò alla luce vicende, opere ed artisti poco noti e dimenticati.
Un ulteriore approfondimento sulla fraternità artistica, che si raccolse intorno al lago, è stato compiuto nel 1990 in occasione della mostra “Tra il Tirreno e le Apuane”, da un gruppo di specialisti che hanno analizzato l’interessante contesto artistico-culturale e socio-politico della Toscana occidentale nel periodo a cavallo del Secolo. Grazie alla Fondazione Ragghianti e alla Cassa di Risparmio di Lucca fu realizzata una importante mostra, della quale già si parlava qualche tempo prima della morte di Carlo Ludovico Ragghianti.
Furono molti gli artisti che si raccolsero a Torre del Lago, e qui vissero, soggiornarono e lavorarono per qualche anno attorno a Giacomo Puccini, condividendo una medesima poetica e analoghe aspirazioni.
Vicino ai meno noti Pagni, Fanelli, Gambogi, troviamo anche Angiolo Tommasi e Plinio Nomellini che poi si trasferisce a Viareggio dove vive per dieci anni, protagonista insieme a Lorenzo Viani di una grande stagione artistica.
E con loro Moses Levy attivo tra la campagna pisano-lucchese e Viareggio; e Antonio Antony de Witt e Alberto Magri, che sono legati a Pascoli e alla sua presenza a Castelvecchio.
Una realtà abbastanza ampia, ricca di fatti e di esperienze: sullo sfondo del microcosmo apuo-tirrenico dominato da iniziative, interessi, movimenti e miti che fanno capo a Cozzani, Salvatori, Pea, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Ungaretti, non insensibili in un modo o nell’altro ai messaggi di Gabriele D’Annunzio.
È il quadro, dunque, di una stagione tutta particolare, fervida di movimenti e aspirazioni, che spicca nel panorama della cultura italiana.
Nel 1998 un’ altra importante mostra, allestita nelle sale del suggestivo Palazzo Mediceo di Seravezza, torna nuovamente a occuparsi delle avvincenti pagine di vita, di musica e di arte che si snodarono nella quiete del Lago di Massaciuccoli.
Nel giugno del 1891 Giacomo Puccini si installava a Torre del Lago nella modesta casa del guardacaccia Venanzio che il compositore acquisterà nel 1896 con i primi diritti della Bohème, facendone la graziosa, moderna abitazione che è oggi museo visitabile. Torre del Lago era allora “una lingua palustre, non più larga di quattro chilometri”, poche case in muratura presso la chiesa, qualche casupola a specchio del lago e tanti capanni di falasco tra il padule e la macchia; terra vergine e incontaminata come la Maremma, distante solo sette chilometri da Viareggio e non lontana dai centri urbani di Lucca e di Pisa, essa contava trecento abitanti.
Puccini riuscì a convogliare sulle rive del Massaciuccoli un cenacolo di pittori – tutti con i sogni in tasca al posto dei quattrini e con un profondo disprezzo per l’arte commerciale – che intorno al ‘Doge’, come Giulio Ricordi soleva chiamare Puccini, concorsero a creare quel clima di amicizia, di affiatamento, di cultura e di scanzonata ironia che stimolò l’universo artistico e poetico di ciascuno dei componenti, e li rese protagonisti di una ispirata stagione creativa.
Per quasi un ventennio, cadenzato dall’inebriante, popolare successo con il quale venivano accolte dalla platea mondiale le opere del Maestro lucchese, tutte composte sulla sponda del lago (Manon Lescault – 1893, La Bohème – 1896 – Tosca – 1900, Madama Butterfly – 1904, La fanciulla del West – 1910).
Sulle rive del lago si formò lo storico Club la Bohème, che lungi da avere finalità artistico-culturali, era programmato sugli spassi tipici delle congreghe maschili della provincia italiana di fine secolo: la caccia, la pesca, il gioco delle carte, le robuste bevute di vino, le abbondanti libagioni.
Con l’avvento del nuovo secolo il club storico si scompagnò, i successi costringevano Puccini ad allontanarsi per periodi sempre più lunghi dall’amato lago.
La fuga dalla città da parte di Puccini e dei pittori della generazione del Sessanta e la scelta di vita, sull’esempio tolstoiano, ai margini di una vita civile in una terra inviolata rispondevano ad una esigenza di matrice decadente largamente sentita sul finire del secolo in tutta Europa. Nell’intimo colloquio con la natura, consolatrice e rigeneratrice, si tentava di superare il senso di smarrimento e lo stato di sgomento coniugato alla ‘modernità’, alla confusa coscienza del mutare dei tempi e alla conseguente incapacità di adeguarvisi, inconsciamente nell’Eden privato si cercavano i mezzi per rinnovarsi, per superare o anche per sottrarsi al disagio esistenziale e creativo, seguiti al crollo delle certezze positiviste e delle speranze postrisorgimentali.
Nella sospensione atemporale della campagna, nella distrazione primitiva e corroborante della caccia, in quel baloccarsi in baldorie e trastulli a volte grevi e un po’ infantili con i quali Giacomo e gli altri amavano tanto trascinare le lunghe serate di Torre si indovinano gli espedienti inconsci per rassicurarsi, per concedersi una tregua ed allontanarsi dal sottile senso di inquietudine che coabita con gli uomini dell’età dei trapassi, erano gradevoli mezzi che fungevano da antidoto all’ansia endemica di fine secolo. Impreparati ai grandi mutamenti dei valori e degli indirizzi, gli amici di Torre esorcizzavano il ‘male di vivere’ che li avvolgeva e si scrollavano di dosso il fardello dello sgomento riunendosi in gruppo e liberandosi con lo scherzo, con l’umorismo e con la fumisteria, bandendo semplicemente dalla Bohème ‘per statuto’ saggezza e ‘ammusoniti e pedanti’ che potessero far tornare alla mente le difficoltà dell’esistenza, o avessero la pretesa di prendersi troppo sul serio. È d’altronde tipicamente toscano – e la congrega era interamente toscana – smorzare con la causticità di una battuta le emozioni, con sarcasmo mettersi in discussione e scherzando ironizzare su sé stessi e sugli altri. Puccini, serrato in una mai risolta timidezza, perseguitato da una persistente malinconia, riservato ma cordiale, modesto anche all’apice della gloria “non aveva nei suoi gusti nulla che fosse eroico”, e agli antipodi di D’Annunzio sempre teso a sublimare sé stesso, Puccini tanto profondamente soffriva l’ufficialità alla quale lo costringeva il successo quanto era malato di struggente nostalgia – di torrelaghite – per il suo Eden lacustre, per il suo rifugio, rassicurato dagli artisti che sentiva compagni un po’ anche del disagio del vivere.
Si ispiravano al mondo arcaico e contadino, alla vita rude e incontaminata dei campi, alla quale d’altronde si rivolse, e con straordinari esiti, anche il tardo Fattori; rinunciavano all’impianto costruttivo rigoroso, ordinato e composto, delle tavolette dei grandi predecessori, indugiando spesso nella narrazione della sena naturale, e all’ “eccitato luminismo” macchiaiolo sostituirono timbri più piani e moderati, il bozzetto dal vero diventò un primo studio, essenziale e necessario, per sviluppare il quadro dal formato dal salon.
La fraternità artistica spontaneamente sorta intorno al musicista aveva più di un elemento in comune, primo fra tutti il profondo disgusto per i ‘trafficanti superficiali’ e per la pittura commerciale, aneddotica e oleografica, fatta di “tante di quelle marchesine e tanti di quei cicisbei che” come diceva Diego Martelli ancora nel 1895 “non era possibile fare un passo senza incontrane una comitiva, a meno che non si inciampasse in qualche moschettiere in cantina, o in qualche armigero del milleseicento” .
Gli artisti che intorno al lago “crearono un’atmosfera di poesia” come ricordava, compiacendosene, Lorenzo Viani nella prefazione alle memorie del gruppo della Bohème di Rinaldo Cortopassi, erano “uomini di fervida fede, di maschio cuore generoso, credenti della grande Arte” e refrattari a qualunque condizionamento, preferivano restare in bolletta e seguire i loro “sogni vasti come le grandi nuvole”, piuttosto che adattarsi magari saltuariamente, alla ritrattistica su commissione, uno dei pochi generi pittorici che potevano creare vantaggi economici concreti.
Gli artisti di Torre tenevano tenacemente al proprio individualismo e alla propria indipendenza espressiva che si esplicava allora e per tutti nel dedicarsi alla pittura di ‘paesaggio’. Paesaggio ‘puro’ di interna coerenza e di inclinazione più o meno accentuatamente simbolista, in cui la presenza umana era volontariamente omessa come nelle opere di Ferruccio Pagni e di Guglielmo Amedeo Lori, e paesaggio ‘animato’ di declinazione naturalista, popolato da lavandaie a specchio dell’acqua di Angiolo Tommasi e di robuste e stremate contadine di Raffaello Gambogi.
La condivisione delle tematiche, degli intenti e dei metodi nel clima disteso dell’amicizia e dell’affinità tra pittori costituitisi in congreghe ed uniti del lavoro svolto all’aria aperta e in una sorta di ‘vacanza creativa’ invitavano alla convivenza serena con sé, con gli altri e con il Mondo.
Non vi fu ‘scuola’ a Torre del Lago. I pittori che vissero intorno al compositore rispondevano a un contesto di sollecitazioni ideologiche e di istanze culturali ben più ampio e composito di quello che avevano accompagnato le avventure artistiche dei precedenti sodalizi toscani; inoltre i rapporti di coesione tra i vari pittori e tra i pittori e Puccini si protrassero in un arco di tempo molto lungo e di conseguenza con esiti e soluzioni linguistiche ed espressive di molteplice valenza. Ciascun pittore ha infatti descritto un cammino personale ed autonomo, ciò che non ha impedito comunque di guardarsi con reciproco interesse, di confrontarsi, di spronarsi alla sperimentazione e che proprio intorno al lago si siano compiuti e verificati sistemi di influenze e correlazioni.
Non tutti i pittori del lago avvertirono la crisi della pittura ottocentesca con la stessa acutezza con cui il compositore avvertì la fine del melodramma a cui aveva dato vita immortale; verosimilmente non avevano a disposizione gli strumenti conoscitivi per giungere a capire la realtà storico-artistica nella quale si muovevano, pur tuttavia anche tra tavolozze e pennelli si respirò aria di rinnovamento e di sperimentazione, perlopiù mediata da Plinio Nomellini. Versatile e irrequieto, con risorse energetiche illimitate e una grande vitalità biologica, egli fu polo di attrazione e catalizzatore del sodalizio artistico, al quale proprio per suo merito si aggiunse ad apertura di secolo il giovane ‘cervello in ebollizione’ di Lorenzo Viani, che in Plinio Nomellini oltre all’artista dal quale apprendere la lezione, venerava l’uomo in evidente odore di anarchia, con tanto di processo per cospirazione alle spalle. Plinio, sensibile agli orientamenti culturali e alle tendenze artistiche del tempo, era capace di raccogliere e filtrare con processi personalissimi di decantazione e interiorizzazione i fermenti mitteleuropei a lui più congeniali, arricchendo ininterrottamente e trasformando il proprio già abbondante lessico e aggiornando inoltre la congrega di Torre, dotata di una levatura culturale e intellettuale meno ricca e brillante e più moderata e lenta nel recepire le novità e nel rispondere alle infiltrazioni di tangenza europea.
Torre del Lago dunque si aggiornava e tentava in vario modo di superare la grammatica ottocentesca, ma era ancor troppo immersa nelle sicurezze della tradizione per comprendere le istanze delle avanguardie, tuttavia la confraternita accolse Lorenzo Viani, artista in erba che pur partendo dal ceppo realista si rivelò largamente disponibile alle sperimentazioni più avanzate. Imberbe, Viani a Viareggio si era buttato anima e corpo, nell’anarchismo “che rappresentava il prendere forma politica di un diffuso sentimento individualista e libertario”.
Con l’avvento del Novecento, Viareggio è diventata la spiaggia d’oro d’Italia, in breve tempo si è conquistata un ruolo di vivace protagonista, oltre a un cospicuo numero di personalità residenti (Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Giuseppe Ungaretti, Campolonghi, Luigi Salvadori, Enrico Pea, Viani, Nomellini, Moses Levy, Francesco Fanelli ecc.) nell’estato raccoglie innumerevoli presenze politiche, mondane, culturali di altrettanto significato intellettuale (Eleonora Duse, Ugo Ojetti, Ildebrando Pizzetti, Grazia Deledda, Isadora Duncan, Carlo Carrà, Soffici, Bistolfi, Luigi Pirandello, ecc.) che rendono l’ambiente estremamente stimolante per civiltà artistica, musicale e letteraria.
Dopo il successo del Trittico pucciniano (1919), a Viareggio viene fondato in onore a “quel burlone di Gianni Schicchi … un club peripatetico, senza sede fissa, né preoccupazioni aristoteliche, in quanto suo unico scopo era di radunare periodicamente i soci attorno a una tavola imbandita” di cui “manco a dirlo, il presidente era Puccini”.
Questa è stata l’anima più vera, che è rimasta intatta nel tempo, di un territorio straordinario, pieno di fermenti culturali, pieno di artisti impegnati, di manifestazioni, di iniziative, spesso occasionali e un po’ confuse. Un territorio difficile ed accogliente al tempo stesso, di cui è facile innamorarsi.
Versilia, Luglio 2024.
Marco Gianfranceschi