Una vita di pittore quasi solitaria, disobbediente com’egli era alle imposizioni ufficiali e in polemica anche col potere estetico delle avanguardie commercializzate (quasi rivendicasse il diritto a rimanere un pittore di tradizione), Bianchi possedeva un eccellente mestiere e, benché risentisse del nascente postmacchiaiolismo, la sua prima esperienza grafica e cartellonistica ce lo rivela non disattento alla recente tematica futurista come anche ad una certa moda liberty o addirittura alle impaginazioni libresche di un De Carolis.
Questa sua formazione avveniva all’insegna della grande lezione francese dell’Ottocento, filtrata dalle sintesi formali e volumetriche di un Cezanne, se la sua pittura dopo il ’35 (ricordo solo ilPadule del ’40) è gia cosi luminosa, materica, non naturalistica come i tempi e gli esempi imporrebbero.
L’uomo non era quieto ma vivace, insoddisfatto. Avvertiva forse il limite del provincialismo di cui era costretto a nutrirsi e l’apporto che gli sarehbe derivato se avesse avuto il modo e il coraggio di muoversi verso altri lidi, ma forse la malferma salute e una cocciuta e celata sfiducia di fondo verso sé stesso lo spingevano a restare, ad operare mutamenti solo nell’ambito di una poetica che correva inesorabilmente il rischio di farsi ripetitiva dei piu famosi modelli francesi e toscani. Tuttavia Bianchi possedeva un alto magistero pittorico e molte tele rivelano quale eccellenza di risultati potesse egli raggiungere.
Nel dopoguerra, dopo una lunga pausa, le sue tele si impreziosiranno ulteriormente: qua e là faranno capolino, per esempio nei panneggi di alcune nature morte, perfino certe rigidità di tipo culbista oppure alcuni stupori metafisici, unitamente a taluni abbandoni morandiani. L'artista è eclettico: nello stesso periodo produce tele di diversa ispirazione a riprova di alcune sue incertezze nella via della ricerca. Dal quadro delle Mondariso, solenne per i volumi e il controllato rispetto delle regole, passa a Casa mia, un gioiello fresco, libero, di alta fattura lirica.
Alla ripresa del ’58, e per tutto l’ultimo decennio di vita artistica, Bianchi scopre il gusto della sua libera creatività: i paesaggi sono sempre meno vincolati alla descrizione, anzi egli gioca con i colori, lascia addirittura scoperta la tela, pare che miri a sintesi diverse sempre con misurato equilibrio, senza fronzoli o sgrammaticature. C’e una lunga serie di tavolette di paesaggi che rivela questa sua storia interiore, questo suo procedere per sintesi, per intuizioni rapidissime, alla ricerca della luce nelle varie ore del giorno, con Paludi essenziali, profonde, ritmate con pennellate che non vivono piu in funzione della precisione vedutistica ma dell’intrico emotivo che Bianchi si porta dentro, preoccupato di una resa lirica piu intima, piu raccolta, non declamatoria. Infatti l’uomo andava accentuando le sue chiusure, i propri isolamenti, avvertendo l’urgenza del nuovo ma sapendo forse di dover restare fedele al proprio respiro, al proprio passo di pittore lontano dalle «mode» ma anche estraneo alle problematiche inquietanti che avevano scosso l’Europa artistica con Picasso, con Leger o Mondrian. Bianchi non tradusse il suo dramma esistenziale, che pur visse, in esasperati linguaggi di tipo espressionistico ma scandì, al contrario, il suo silenzio umano in forme placate e gratificanti le sue inquietudini, alla ricerca di un’armonia che egli credeva di intravedere negli aspetti della natura. Su questa strada egli trasferì le sue tensioni, andando oltre la banale effusione lirica o il piatto oggettivismo grafico, per penetrare a suo modo nella struttura del le cose e riportarvi un senso, una visione. Non distruggeva l’oggetto, non dimenticava la collocazione spaziale, non scomponeva arbitrariamente i piani come i pittori dell’avanguardia: ma concludeva ugualmente in positivo il proprio minuzioso scandaglio, cioè si inseriva nel reale penetrandolo oltre le apparenze e ridando al linguaggio – a suo modo – lo stesso ruolo dirompente che poteva avere per altri artisti fuori della tradizione. Il ritratto di Marco del ’62 o Il Rietto o il Palude del ’67 rispondono a precise istanze creative, con una ricerca psicologica e cromatica che non si adegua semplicemente all’immagine ma la penetra e la supera, quasi che il ritmo compositivo o la cromia di un verde, di un viola, di un azzurro facesse parte delle sue attese di artista, delle sue speranze, del suo destino.
Anch’egli tendeva a chiarirsi la trama misteriosa di un oggetto o di un paesaggio ma li salvava nella loro struttura volumetrica e coloristica nello stesso momento che li arricchiva di luci sue, di segni personali, di guizzanti ipotesi luministiche.
Ci potremmo chiedere, di nuovo, se l’isolamento a Massarosa puo aver nuociuto al nostro artista o se, al contrario, non gli abbia consentito di difendersi meglio dalle tendenze arbitrarie del tempo e dalle tentazioni artificiali ed effimere, per concentrarsi sugli aspetti duraturi e universali della vicenda umana e del suo am- biente. E` certo, comunque, che da quella solitudine non venne gloria al pittore anche se quel soliloquio creativo si concluse con una produzione ricca e dignitosa, dove all’enfasi dei troppi dilettanti Bianchi sostituì il senso della costruzione pittorica, con pennellate sempre capaci di togliere peso alle cose materiali, di mace- rarle, di scioglierle in luce.
Moltissime tele sono a testimoniare che quel suo impressionismo non fu epidermico e spontaneistico ma mediato da un magistero e una cultura che gli consentirono di non rassegnarsi passivamente ad una supposta armonia delle cose naturali (il che accade ad una mediocre moltitudine di neoimpressionisti) ma di impegnarsi in un’opera di trasformazione della banale oggettività, rimanendo fedele al suo io piu autentico, non declamando mai i colori con retorica e sfarzo, riportando addirittura a serenità cromatica nuova situazioni naturali di per sé anonime o fredde.
Mi pare che la migliore celebrazione di Bianchi stia nella riaffermazione della fedeltà al proprio mondo, nel riconoscimento che la sua compostezza interiore e il suo orgoglio di uomo travagliato trovano rispondenza esatta in una pittura vigorosa e asciutta che ci ricorda molto da vicino quella troppo dimenticata di un Raffaele De Grada o di un Giovanni March.
Dino Carlesi (1980)
Nasce a Massarosa il 28 giugno 1899. Dimostra fin da ragazzo una spiccata predisposizione per il disegno e la pittura. A partire dal 1916 frequenta l'Istituto di Belle Arti di Lucca, dove segue i corsi tenuti da Alceste Campriani. Tra i suoi compagni, gli scultori Rita Marsili, Niccolò Codino e il pittore Mario Palagi. Viene licenziato nel 1921 con il massimo dei voti e nello stesso anno ottiene un "Pensionato Artistico Nazionale per la Pittura", che gli consente di perfezionarsi a Roma. Qui Mons. Nannini gli procura l’incarico di eseguire il ritratto del cardinale Tacci. Il ritratto piace al prelato che, nel febbraio del 1922, compensa il giovanissimo artista con una somma ragguardevole. Viaggia lungo l’Italia, soggiornando anche a Milano, dove rimane quattro anni, guadagnandosi da vivere affrescando le pareti dei cafès-chantants e lavorando come disegnatore nel campo della pubblicità con gli pseudonimi di Virbia e Vubi. Nello stesso periodo collabora con “Il Corriere della Sera”. Intanto dipinge e gradualmente affina i propri mezzi espressivi. Tornato definitivamente a Massarosa, ha stretti contatti con Lorenzo Viani, Alfredo Catarsini, Allfredo Meschi, Renato Santini. Nel 1927 vince il concorso per il bozzetto del manifesto del Carnevale di Viareggio. Il lavoro, presentato con il motto ”Vele di ritorno”, è prescelto dalla giuria all’unanimità su novanta: Pierrot si staglia sullo sfondo del Tirreno su cui navigano vele triangolari bianche e rosse. Il disegno verrà riprodotto sulla copertina dello spartito della canzonetta ufficiale del carnevale, un two-step di Carosio su parole di Sappy. Nel 1932 tiene la sua prima personale a Viareggio, esponendo oltre cento opere, ottenendo un ampio consenso di pubblico e di critica. La sua pittura, che prende le mosse da un impressionismo post-fattoriano, è collocabile nell'ambito di un post-impressionismo luminoso e denso di delicate atmosfere. Nel 1936 sposa Enrica Biagi, maestra elementare, e nel 1939 soggiorna nuovamente per a Milano. Nel 1942 trova occupazione alla Beta Film di Firenze, una casa di produzione di cartoni animati che, all’insegna dell’autarchia, contesta la produzione disneyana. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, la Beta Film è distrutta da un bombardamento, e il pittore resta senza lavoro. Inizia un lungo periodo di stenti, a cui segue lo sfollamento, prima a Montigiano e poi a Fibbialla. Dopo la guerra, a causa del carattere ombroso e schivo, sceglie di trascorre gran parte della sua vita in solitudine. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta rompe l’isolamento, incoraggiato dagli amici di un tempo, Alfredo Catarsini e Renato Santini – Viani è morto nel 1936 – a cui si aggiungono Elpidio Jenco, Carlo Pellegrini, Felice Del Beccaro, Nicola Lisi, Lanfranco Caretti, il giovanissimo Vasco Giannini e il poeta pisano Bruno Fattori. Espone a Milano (1958, Galleria Gussoni), Montecatini, Livorno e nel 1959 a Firenze nella prestigiosa Galleria d'Arte Internazionale. Il Millet gli dedica un articolo su La Revue Moderne di Parigi (1950). Espone ancora a Montevarchi, Massa, Grosseto (1962) e Arezzo (Galleria Vasari, 1964). Ottiene numerosi consensi e recensioni favorevoli: una sua personale a Palermo (1959, Circolo della Stampa) si conclude con un grande successo. Nonostante l’artrosi deformante che lo affligge, continua a dipingere con impegno, dedicandosi al paesaggio, al ritratto, alla natura morta. Il consenso di pubblico e di critica lo appagano però solo temporaneamente; spesso, insoddisfatto del risultato, decide di distruggere molte opere appena realizzate. Muore a Massarosa il 25 aprile 1970. Gli sono state dedicate numerose mostre personali retrospettive a Lucca, Firenze, Carrara, Pisa, Bari, Massarosa e Viareggio.