Nasce a Stiava nel 1929. Mentre frequenta la scuola di avviamento professionale la sua maestra, Mari di Vecchio,moglie del pittore lucchese Giuseppe Ardinghi e pittrice anch’essa, si accorge delle sue qualità e lo indirizza verso studi artistici. Altemura inizia a dipingere solo nel 1947,quando s’iscrive all’Istituto d’Arte Augusto Passaglia di Lucca, dove sviluppa le proprie inclinazioni, appassionandosi all’opera di Van Gogh, Masaccio e Michelangelo. Nel 1952si diploma Maestro d’Arte e nel 1953 partecipa all’importante collettiva organizzata da Krimer (Cristoforo Mercati) e da Elpidio Jenco nelle sale del Principe di Piemonte di Viareggio.Presenti, fra gli altri pittori, anche Angelo Jarusso e Giuseppe Banchieri.Altemura espone in quell’occasione grandi disegni e dipinti a olio improntati, a un realismo sociale dal forte tratto espressionista. In quel periodo stringe frequentazioni artistiche e durature amicizie, tra gli altri con Eugenio Pardini, Serafino Beconi, Fausto Maria Liberatore, Giuseppe Martinelli, Vasco Giannini, Alfredo Catarsini, Loriano Geri, Silvano Passaglia, Mario Francesconi, Silvio Micheli, Leone Sbrana e altri ancora. A Viareggio frequenta la Bottega dei Vageri di Krimer e Jenco, vivace punto d’incontro della cultura locale. Importante in quegli anni l‘amicizia con Mario Cosci, Vasco Gianni, Renato Santini e il giovanissimo Giuseppe Giannini. Intorno al 1956-57 la sua pittura s’ispessisce, usa la spatola oltre ai pennelli, creando fondi materici dalle suggestioni informali. Partecipa a numerose esposizioni in Toscana, a Roma a Palazzo Grazioli e nel 1956 in Germania a Lindau. Nel 1967 ha inizio la sua carriera d’insegnante di disegno dal vero all’Istituto d’Arte Stagio Stagi di Pietrasanta. Negli anni a seguire la sua pittura muta: compaiono oggetti, utensili, vetri infranti, muri crepati, giochi fra interno ed esterno, intensi volti femminili. I colori si fanno più puri e il suo lavoro è sempre più apprezzato da critici e artisti. Nella produzione degli ultimi anni si avverte un’attenzione costante all’oggetto ritratto, guardato con occhio poetico, con un segno costruttivo che si lascia vedere sotto le raffinate velature di colore. La forza innata del segno e la fantasia del tratto hanno portato in dote a Ernesto Altemura la spiccata naturalezza della descrizione pittorica. Una sensibilità verso il soggetto da interpretare e una tecnica naturale che ne esalta le soluzioni, mai casuali ma osservate, assimilate e personalizzate, Altemura ha in sé decenni e decenni di sperimentazioni che cadenzano il suo percorso.I suoi giochi pittorici ricalcano le magie dei grandi del passato, sulla base diuna cultura che riecheggia i tratti più pregiati dei padri di quest’arte, un rapporto che vivacizza ogni soggetto affrontato. “Gioco” è termine assolutamente qualificante e mai svilente del suo lavoro, perché le sue riflessioni artistiche tra loro sono anche conflittuali, competitive. Descrizioni di soggetti, ganci, detriti, rubinetti, fiori, posti in evidenza a dettare l’impaginazione in un equilibrio sostanziale, ma a volte anche cornici o indicatori di un abile intreccio di segni in un percorso quasi astratto: lo sfondo che pretende visibilità, con l’intento di primeggiare nella composizione. Il maestro è il quadro, lo vive dal suo interno dove crea le condizioni che lo portano a essere, mai soggetti devitalizzati o passivi, ma attrazioni vivaci che ridono alla vita. Un effluvio che permea l’opera del suo sentire e volere, un palcoscenico su cui l’artista recita a soggettodando vita alle sue creazioni. Nei suoi racconti non si pone limiti, tutto si confà all’esigenza dell’opera, un eterno giovane teso alla sperimentazione, è l’arte che lo richiede. Svariate le formule, fino all’uso dei materiali più impensati per accrescere il peso del messaggio, spessori utili anche se deteriorati che il mezzo tecnico porta alla luce nei racconti ambientali delle sue composizioni. Altemura sprigiona sensibilità da ogni dove, le linee che portano al quadro sono maestrie che ci svelano i misteri della composizione, siano esse campagne o donne che si perdono con lo sguardo in panorami ideali, sintesi di felicità e sofferenza.
Francesco Delli Carri